lunedì 20 dicembre 2010

Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Einaudi 2007














Un esordio sorprendente per una serie di ragioni. E’ il primo libro di versi di un narratore noto (e che ha scritto uno dei più bei racconti che abbia mai letto in vita mia: I palloni del signor Kurz). E’ un canzoniere sull’amore platonico, tanto impossibile quanto intenso, quindi anacronistico ma moderno nello stesso tempo.
E’ un bellissimo libro di poesie uscito in una collana che si dice prestigiosa ma che sforna per lo più dei mattoncini bianchi, noiosi e illeggibili (salvo la sempre fresca Patrizia Cavalli e il felicemente non-poeta Attilio Lolini). Ma quello che cattura il lettore è il modus, lo stile, che come si sa, in poesia è la cosa più importante. Quella cosa che se c’è lo capisci da subito. La voce del poeta, quando c’è, la senti forte e chiara. Il resto è un balbettio sconnesso e presuntuoso.
Compitini per le occasioni familiari. Compleanni, lutti, indignazioni enfatiche sulla guerra. Tutto quel nefasto e tossico pacchetto di inutili e noiosissime lamentazioni “per sperare in un mondo migliore”.
Per fortuna Michele Mari, in queste cento poesie riesce a tenere insieme raffinatezza e leggibilità, romanticismo e ironia, pathos ossessivo e lucidità amara, visionarietà e immediatezza quotidiana. Riesce nel miracolo di rivitalizzare un tema usuratissimo e banalizzato creando un canzoniere dell’amore moderno. E lo fa utilizzando citazioni colte e materiali poveri, inserendo nella sua trama poetica testi e immagini che appartengono al pop (canzonette, cartoni animati, slogan pubblicitari, film, tv). Il risultato è una sintesi felice e vitale.
Un libro godibilissimo. Eccone qualche esempio:
Il nostro fidanzamento è morto// Adesso lo imbalsamo/ poi mi iscrivo a un corso da ventriloquo/ e come Norman Bates/ apro un motel.
Qui è chiaro (e comico) il riferimento al film Psycho di Hitchcock.
I funerali del papa/ e quelli del nostro amore/ si sono celebrati insieme// Se penso/ che m’innamorai di te/ sotto Paolo VI / mi sembra che questa storia duri/ dai tempi di Gregorio VII/ o d’Innocenzo III/ anzi adesso che controllo/ è proprio così.
Qui l’attacco è da cronaca televisiva, con rinculo storico-ironico.
Puntavo sulla paglia o sul legname/ ma dei tre porcellini/ tuo marito/doveva essere quello in salopette con la cazzuola/ perché ho soffiato e soffiato/ ma la tua casa/ non è venuta giù.
Qui c’è tutta la fantasia visionaria dei cartoons.
Ti cercherò sempre/ sperando di non trovarti mai/ mi hai detto all’ultimo congedo// Non ti cercherò mai/ sperando sempre di trovarti/ ti ho risposto// Al momento l’arguzia speculare/ fu sublime/ ma ogni giorno che passa/ si rinsalda in me/ un unico commento/ ed il commento dice/due imbecilli.
Non è magnifica (nella sua rarità) questa chiusa autoironica con sberleffo? A riprova che si può essere struggenti e divertenti insieme. A volte, tra il dire e il fare, c’è di mezzo Michele Mari. Per fortuna.

Viktor Nekrasov, Kira Geòrgievna, Einaudi 1961, incipit

I.

Dopo il terzo o quarto bicchierino si cominciò a discutere d’arte; e la discussione toccò diversi argomenti, finché venne a fissarsi su questo: se possa realmente considerarsi opera d’arte un romanzo o un racconto non pubblicato. Le opinioni erano nettamente divise; chi diceva di sì, chi di no; e ognuno parlava molto convincentemente in sostegno della propria tesi. Ma la più convincente di tutti - o almeno, così le sembrava – era Kira Geòrgievna. Non era lo stesso che un racconto uscisse a stampa o restasse, scritto a mano, in un quaderno da scolaro? C’era, era comparso, era nato, e tanto bastava! Quanta gente poi lo leggesse, non aveva importanza. Poteva anche avere un lettore solo, e quest’uno poteva essere l’autore stesso! L’importante era che fosse stato scritto.