giovedì 9 dicembre 2010

A lavoro ci devo comunque andare, Altrimedia edizioni 2009, pp.11-12











Elogio dell’impiegato onesto
nei tempi della crisi globale


Da secoli, l’impiegato è stato vilipeso, umiliato e offeso. E’ stato sempre scelto come esempio fulgido del fallimento. Il simbolo della più bieca mediocrità. La mezzamanica, per l’appunto. La figura professionale antitetica all’imprenditore, all’intraprendenza manageriale, al talento del self-made man. L’impiegato condannato ad un’esistenza priva di soddisfazioni, di slanci, d’inventiva. L’uomo senza qualità. Quello che si adegua. Piega la testa. Quello che ha una specie di perversa vocazione alla sottomissione. Se non al servilismo. E al masochismo. Dici impiegato e ti vengono in mente certe untuose figure dostoevskijane con capelli radi ma con molta forfora sulle spalle di giacche sdrucite. O la tragicomica icona del rag. Fantozzi. O l’archivista capo interpretato da Totò in Totò e i Re di Roma (tratto da due racconti di Cechov, Morte di un impiegato ed Esami di promozione), dove uno starnuto che da un loggione colpisce il suo capo in platea crea una catastrofe nella sua già grama esistenza impiegatizia.
Ma in questi tempi di crollo globale del più cinico capitalismo, fa quasi piacere, sul piano etico, questa crisi che almeno ci libererà dal superfluo, sperando non ci manchi mai il necessario.
C’è quasi un riscatto apocalittico dell’impiegato, intendiamoci, di quello onesto, che lavora, che è gentile col pubblico, che non abbaia, che non si lagna, che non è entrato col solito calcinculo (che, fateci caso, quelli che entrano così, poi si comportano sempre peggio), insomma l’impiegato affezionato alla sua tranquilla routine che gli permette magari anche di coltivare i suoi interessi (passeggiare, leggere, dipingere, andare in bici), proprio perché può contare su tempi liberi certi, non raggiungibili da telefonate che implicano un suo qualche ruolo di responsabilità.
Insomma l’impiegato, pur in una condizione di sudditanza, può, paradossalmente, contare su spazi di libertà superiori a quelli dei suoi capi, stritolati dallo stress dell’ambizione, della carriera, della responsabilità. Che porta ad avere la casa al mare e in campagna. A farsi la settimana bianca a Cortina. Ad avere tutto il repertorio materiale degli status symbol, ma pure, spesso, una vita impossibile. Il riscatto dell’impiegato, secondo me, è cominciato in letteratura con lo scrivano Bartleby di Melville. Quello che a domanda rispondeva sempre: Preferirei di no. Quello che manifestava così una mite ma estrema resistenza ad entrare nell’ingranaggio delle false ambizioni e delle parvenze non valide, giusto per citare Moravia e Gadda, che fa sempre figo in una nota come questa. Ecco questa crisi globale, se gli sopravviveremo, segnerà la rivincita di tutti i travet, dalle strisce di Bristow all’epopea di Fantozzi. La vendetta del saggio accontentarsi di una vita fatta di abitudini rassicuranti rispetto alla nevrosi dell’accumulare più roba che vita interiore. Direbbe Totò: M’impiego ma non mi spezzo. E a prescindere. Ovviamente.

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