domenica 28 aprile 2019
La prima cosa sentita di Fabrizio de Andrè
da
I migliori dischi della nostra vita
La ballata dell’amore cieco (1966) di Fabrizio de Andrè
È il primo disco che ho ascoltato di Fabrizio de Andrè. Sarà stato il 1967-68, avevo 11-12 anni. Fu una specie di illuminazione e, in effetti, l’ombra del salotto era attraversata da una luce estiva quando entrò mio fratello, il più grande, con un suo amico vestito di bianco, con dei sandali e con in mano questo 45 giri. Appena la puntina fu appoggiata sul disco, sento quella voce mai sentita prima, quel timbro unico, profondo e preciso nella scansione delle parole, che canta:
Un uomo onesto, un uomo probo, tralalalalla tralallaleru…
Un testo duro, cupo e drammatico accompagnato, per contrasto, da una allegra ballata swing, con fiati dixieland. Fu una folgorazione e un innamoramento fulmineo che portò me e i miei fratelli a farci diventare per sempre devoti al culto di San Fabrizio De Andrè. Fino a quegli lp meravigliosi sentiti per ore, imparandone le parole a memoria e gli accordi. Capolavori che si intrecciavano con momenti forti della mia vita, come Non al denaro, non all’amore nè al cielo (quando con Edgar Lee Masters stavo scoprendo anche la poesia beat e cominciando a scrivere la mia), La buona novella, (conflitti familiari col padre), Storia di un impiegato (scioperi, assemblee studentesche, cortei, vissuti sempre con un distacco anarchico, laterale e l’innamoramento. La classica, letale, compagna di classe. Innamoramento neanche dichiarato per timidezza acuta). Ecco. Peccato che da quando cominciò quel sodalizio con la PFM, un po’, me ne disamorai. Quelle canzoni snaturate dall’idea di rigenerarle con un po’ di sviolinate elettriche e schitarrate pop. Basti pensare a come suonavano Andrea, o Il pescatore, che resta per me, una delle meno amate, già nella versione originale, ma che la PFM vira proprio a tarantella. Inascoltabile.
Per non parlare della fase finale, dove in Anime salve viene contaminato dal modo fastidiosamente sincopato di scrivere e cantare di Ivano Fossati. Uno che mi irrita già solo a guardarlo in fotografia. Questo per dire, come, a un certo punto dell’esistenza, per crescere, bisogna liberarsi anche dei propri miti. E comunque, non lo chiamate Faber. Si chiamava Fabrizio De Andrè. Ed era davvero sublime.
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